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Psichiatria
- 29 luglio 2022

Long COVID: Scoperti specifici marcatori ematici legati ai sintomi neuropsichiatrici

Un recente studio ha identificato alcuni biomarcatori specifici legati ai sintomi neuropsichiatrici derivanti dall'infezione da COVID-19, offrendo un contributo essenziale per la diagnosi e il trattamento del Long COVID.

Leggi i risultati dello studio!

Cos'è il Long COVID?

Il Long COVID è una sindrome caratterizzata da sintomi persistenti o di nuova insorgenza che possono durare anche per molti mesi dopo l'infezione acuta da SARS-CoV-2. Alcuni tra i sintomi più comuni tra i pazienti con Long COVID sono:

  • Affaticamento

  • Respiro corto

  • Disturbi cognitivi

  • Anomalie del ritmo cardiaco

  • Disturbi del sonno

  • Dolori muscolari e articolari

I ricercatori stimano che tra il 10% e il 30% delle persone infettate dal virus SARS-CoV-2 sviluppi sintomi COVID prolungati ― un rischio che sembra essere meno probabile tra le persone vaccinate. Alla data odierna, secondo un recente rapporto del Government Accountability Office degli Stati Uniti, fino a 23 milioni di persone solamente negli Stati Uniti potrebbero già essere afflitte da problemi di salute cronici causati dall’infezione.

Generalmente si potrebbe essere portati a pensare che il Long COVID possa colpire solamente chi ha sviluppato sintomi gravi durante la fase acuta della malattia, ma non è così. Infatti, è ormai conosciuto il fatto che il Long COVID possa colpire anche coloro che inizialmente hanno manifestato solo sintomi lievi durante il corso dell'infezione. Inoltre, si ipotizza che il Long-COVID possa svilupparsi anche in chi sia risultato positivo all'infezione, ma sia sempre asintomatico durante la malattia.

Long COVIDUna scoperta rivoluzionaria

In un nuovo studio pubblicato il 13 marzo 2022 su Annals of Neurology, alcuni ricercatori dell'Università della California a San Francisco hanno identificato alcuni biomarcatori ematici che persistono per molti mesi nelle persone affette da Long COVID, offrendo prospettive promettenti per la diagnosi e il trattamento di questo disturbo.

«Per gran parte del primo anno della Pandemia, a molte persone con Long COVID è stato detto che quello che stavano vivendo non era qualcosa di preoccupante o legato al COVID» dichiara Michael Peluso, medico e assistente professore di Medicina all’UCSF, nonché primo autore dello studio in questione. «Da un po’ di tempo ormai stiamo iniziando a identificare misure biologiche oggettive che si correlano a ciò che le persone ci riportano di percepire sui loro sintomi da Long COVID».

I partecipanti allo studio

Per condurre lo studio, i medici dell'UCSF hanno intervistato 46 individui precedentemente infettati, ponendo domande in merito a 32 sintomi fisici legati al Long COVID, nonché a sintomi mentali come perdita di memoria, irritabilità, agitazione, depressione, ansia, stress post-traumatico e perdite sensoriali specifiche.

I ricercatori hanno anche effettuato analisi di laboratorio su campioni di plasma sanguigno provenienti da 12 soggetti di controllo che non erano mai stati infettati e che non presentavano sintomi neuropsichiatrici, allo scopo di effettuare un confronto con i dati raccolti durante la ricerca.

Tutti i partecipanti allo studio facevano parte della ricerca Long-term Impact of Infection with Novel Coronavirus (LIINC) COVID-19, con sede a San Francisco. Sono stati arruolati tra marzo 2020 e febbraio 2021, dopo essere risultati positivi all’infezione da COVID.

La scoperta dei biomarcatori

L’intento originario dello studio era quello di seguire i pazienti nel tempo per monitorare l’immunità naturale in seguito all’infezione da COVID. Tuttavia, quando è emerso chiaramente che i pazienti continuavano a manifestare sintomi per molte settimane dopo l'infezione, la comprensione di questi sintomi prolungati da COVID è diventata uno dei principali obiettivi della ricerca.

In un esperimento in doppio cieco rispetto all'identità del paziente e allo stato dei sintomi, il team di ricerca ha utilizzato una tecnica basata su campioni di plasma sanguigno sviluppata dall'autore corrispondente dello studio, Edward Goetzl, medico e professore emerito di medicina all'UCSF. Questa tecnica mirava a misurare le proteine virali del paziente derivate dai neuroni.

I ricercatori hanno prima isolato gli esosomi, delle sacche piene di proteine rilasciate nel sangue da tutti i tipi di cellule. Hanno quindi selezionato specificamente gli esosomi derivati dai neuroni e dalle cellule di supporto note come astrociti. Il Dott. Goetzl considera questo approccio come una misura che riflette l'alterazione delle cellule cerebrali in seguito all'infezione da SARS-CoV-2.

L'analisi condotta ha rivelato livelli medi significativamente più alti di due proteine virali da SARS-CoV-2 ― la proteina nucleocapside e la proteina spike ― nei campioni di plasma sanguigno raccolti tra 6 e 12 settimane dopo la diagnosi in pazienti con sintomi neuropsichiatrici rispetto ai campioni di individui con una storia di COVID ma senza sintomi neuropsichiatrici. Inoltre, i livelli di queste proteine risultavano superiori nei pazienti con Long COVID senza una malattia neuropsichiatrica pregressa anche rispetto a quelli rilevati in pazienti con un disturbo neuropsichiatrico ma senza Long COVID, evidenziando pertanto la specificità di questi marcatori per i sintomi neuropsichiatrici legati al Long COVID.

Il Dott. Goetzl ha affermato che il SARS-CoV-2, come molti altri virus, prende di mira strutture chiamate mitocondri all'interno delle cellule che invade. È molto probabile che il virus interferisca con le normali funzioni mitocondriali, tra cui la produzione di energia cellulare e il contributo alla capacità del sistema immunitario di rispondere alle infezioni. Secondo Goetzl, i ricercatori hanno misurato differenze significative nei livelli di varie proteine mitocondriali tra i pazienti con Long COVID, sia con sintomi neuropsichiatrici che senza, indicando alterazioni nella funzione mitocondriale all'interno dei neuroni.

Nonostante i nuovi risultati si basino su un singolo punto temporale, i pazienti continuano a essere monitorati per valutare le variazioni dei sintomi e dei biomarcatori immunologici e di altro tipo.

Nuove prospettive di Diagnosi e Trattamento

«Credo che la maggior parte degli scienziati che hanno preso in considerazione questo problema potrebbe dire che è molto improbabile che le particelle virali rimangano infettive in questa fase, ma queste proteine virali che rimangono nella cellula possono ancora procurare danni di altro tipo» ha concluso il Dott. Goetzl rimanendo ottimista sulla possibilità di sviluppo di farmaci capaci di entrare nelle cellule infette e distruggere le specifiche proteine virali.

Molti ricercatori attribuiscono i sintomi cronici del Long COVID principalmente a risposte immunitarie prolungate o alterate. Il Dott. Peluso ha dichiarato: «L'infezione acuta iniziale potrebbe innescare cambiamenti a lungo termine e disadattivi nel sistema immunitario».

La presenza continua di proteine virali nell’organismo potrebbe causare risposte infiammatorie croniche. La presenza di alcune molecole virali potrebbe anche innescare risposte autoimmuni, situazioni in cui il sistema immunitario attacca i tessuti dell'organismo.

L'identificazione di biomarcatori come questi potrebbe essere di grande aiuto per giungere a una diagnosi più precisa del Long COVID e facilitare la scoperta di trattamenti efficaci attraverso studi clinici ben progettati. «Con questo studio abbiamo fatto un passo importante verso questo obiettivo» ha concluso il Dott. Peluso.

I risultati ottenuti dallo studio, sembrano infatti promettenti per lo sviluppo di test di laboratorio utili a conoscere i rischi da Long COVID e valutare nuove terapie per affrontare questa sindrome soggettiva difficile da descrivere e misurare.

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